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Sapere
del popolo

libro sapere del popolo

Raffaele Braia

Sapere del popolo

Teatro dialettale nella scena culturale di un paese del Sud

In un breve articolo databile attorno al 1836, scritto in occasione della traduzione milanese della Poetica di Orazio, Carlo Cattaneo, contrapponendo “poesia accademica” e “poesia vernacola”, individuava in quest’ultima compiti consistenti nel “rappresentare l’intimo spirito degli uomini e dei tempi”. Nella prefazione all’edizione italiana di La tradition populaire di Jean Cuisenier, Piercarlo Grimaldi sottolinea come l’istituto folclorico sia stato depotenziato nel corso degli anni Ottanta dall’imporsi di una cultura dell’immagine, dell’apparire piuttosto che dell’essere e ridotto a fenomeno sommerso, poi carsicamente riaffi orato negli anni Novanta, riportato alla ribalta da individui che hanno sentito l’esigenza di mettere in scena una cerimonialità urbana e rurale che ha dimostrato un’insospettata vitalità ed una ancora viva capacità di ri-sacralizzare un tempo ed uno spazio con quei caratteri sacri che li qualifi cavano.
Tale operazione ha reso evidente agli occhi della società quanto manchino lavori che affrontino con agilità, competenza e passione quelle tradizioni popolari, quegli istituti folclorici ricorrenti capaci di riproporre inesausti valori per la spiegazione e la comprensione del comportamento dell’uomo moderno.

È eccezionalmente questa la direzione seguita da Raffaele Braia nel suo Sapere del Popolo (Il Grillo Editore):

l’autore scandaglia dapprima i momenti nodali della vita umana quali il nascere, il matrimonio e soprattutto il morire – eventi oggi privati di quella drammatizzazione che rendeva la gioia e il lutto fenomeni collettivi da condividere con la comunità, non fatti privati ma costitutivi del calendario sociale – poi, sposando la tesi avanzata da Victor Turner (Antropologia della performance) secondo cui tutte le pratiche magicorituali corrispondono a crisi sociali messe in forma – traducendo così il dramma sociale in performance ovvero in dramma teatrale – ci conduce con audace passo in un curioso e variegato viaggio attraverso il teatro dialettale italiano: dalle Laudi Umbre alle commedie di Ruzzante, dalla Commedia dell’arte – puntuale è l’analisi delle maschere e dei tipi, prima vitali personifi cazioni di un popolo o di una nazione, poi ibridate con consuetudini e caratteri non propri – a Goldoni, fra dramma pastorale guariniano, tragedia classicista e melodramma riformato metastasiano.

Attraversando la penisola nel tempo, il lavoro di Braia percorre l’Italia del Sud: la prima sosta è nell’ottocentesca Napoli borbonica, le cui maschere si lasciano accarezzare dal vento della Rivoluzione napoleonica e si servono del teatro come mezzo di propaganda, i cui teatrini popolari come il San Carlino vedono attori quali Edoardo Scarpetta e mettono in scena opere delicate e nostalgiche quali Mia fi a o Moroso de la nona di Giacinto Gallina; poi, proseguendo, scopriamo che il teatro siciliano non è solo nel Pirandello ‘italiano’ e infine, ritornando nella nostra terra, ri-viviamo la grande stagione vissuta dal teatro dialettale barese: da quel singolare episodio che fu la trasmissione radiofonica La Caravella al dramma in tre atti che pose le basi del teatro dialettale barese nel non lontano ’51, U cafè antiche di Vito Maurogiovanni, teatro vero dal riso amaro che seppe come parlare al suo pubblico, passando per il boom degli anni Sessanta quando i moti studenteschi e intellettuali come Pasolini restituirono quella piena legittimità alle culture regionali consentendo di qualifi care il dialetto come uno strumento d’indagine culturale. Dopo le straordinarie esperienze del Centro Universitario Teatrale – dal quale gemmano opere come Lettera di un migrante per la regia di Michele Mirabella o Cieli di Carta (Mirabella-Acquaviva-Bellini) – e della Compagnia del Piccolo Teatro di Bari fondata da D’Attoma o del Teatro Abeliano assistiamo agli anni della crisi, quegli anni Novanta durante i quali alcuni autori si abbandonano alla risata pacchiana mentre altri combattono la crisi in cui versa il teatro barese rigenerandone le forme nelle tv locali (Solfrizzi&Stornaiolo su tutti).

Giungiamo così a casa dove teatro e dialetto si mostrano capaci di indurre a indagini introspettive e di risvegliare il gusto di smarrirsi nei ricordi per preservare dalle insidie della vita di oggi

attraverso le parole di Ninì Riviello o sui palcoscenici percorsi da “Il Teatro dei Peuceti” e Peppino Zuccaro: sono ricordate così La mascì, La Famigghje di Scrumm, U bel de Shangay, Un matrimonio impossibile (gustosa rilettura da Rossini) e il Teatro Mastrogiacomo un tempo reso stracolmo dalla Compagnia Teatrale Gravinese ’81 di Gianni Tullo. Infi ne si conclude con una importante rifl essione sul nodo rappresentato dall’edilizia teatrale, tutto da sciogliere per una riappropriazione dell’intera cittadinanza di luoghi di cultura quali il Mastrogiacomo o il Teatro Centrone. Al termine di una lettura piacevole, la felice penna di Raffaele Braia si rivela capace di offrire risposte a fatti attuali, fondate, paradossalmente, su temi creduti inattuali.
Leo Racano

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